Sernagiotto, nato per correre a Le Mans «Non c’è ricetta: devi andare al massimo»

Ha guidato per la prima volta un kart a 10 anni, a 18 è passato alle monoposto, a 25 era campione del mondo del Ferrari Challenge. Giorgio Sernagiotto, caeranese di 37 anni, quest’anno correrà per la terza volta di fila nella 24 Ore di Le Mans a bordo della Dallara P217 Gibson di Cetilar Racing. Quando gli parli di macchine i suoi occhi si illuminano, e torna il bambino che guardava in tv tutte le fasi della corsa che ama di più al mondo: Le Mans, appunto. Insieme a lui ci saranno Roberto Lacorte e Andrea Belicchi, l’emiliano che correrà per la decima volta in carriera la gara più famosa del mondo. Una decina di giorni fa, Sernagiotto era nel Reparto corse della Scuderia Villorba Corse, che gestisce la Dallara-Cetilar, per fare il sedile con cui correrà un anno e mezzo. «La stagione si dividerà in due. Prima correremo a Monza e a Le Mans. Poi faremo il Mondiale Endurance».
Sernagiotto, come vede questa nuova stagione?
«Siamo passati dalle gomme Dunlop alle Michelin e abbiamo effettuato un cambio tecnico che ha portato nuovo entusiasmo. Mettiamola così: il cronometro ci sorride. Poi con noi è tornato Belicchi, e questo dà una maggiore serenità a tutti».
Per lei sarà la terza Le Mans, ma Belicchi la correrà per la decima volta.
«Per lui essere tornato in squadra significa moltissimo. Ha un rinnovato entusiasmo per questo traguardo: è pazzesco correre lì dieci volte».
Ricorda la prima sul Circuit de la Sarthe, nel 2017?
«Quando gli organizzatori hanno accettato la nostra iscrizione è stata una sensazione incredibile, un misto di felicità e paura. Durante il mio primo giro ero imbambolato. Conoscevo alla perfezione quella pista, ma l’avevo sempre vissuta da un’altra angolatura. Guidavo e provavo un misto di timore e di rispetto verso quella striscia di asfalto. Dà i brividi fare le Porsche Curves a 240 all’ora quasi senza via di fuga».
È un’appassionato della 24 Ore di Le Mans. Come ci è entrato in contatto?
«L’ho amata sin da piccolo, quando su TeleMontecarlo si trasmettevano tutte le fasi della gara. Era la fine degli anni ’80 e vedevo auto bellissime guidate da piloti famosissimi. Me ne sono innamorato».
Perchè corre?
«Per me è stato quasi naturale, con papà Renzo che preparava le macchine da rally. Ho corso dai 10 anni in kart e avrei fatto rally, se non mi fosse mancato l’appoggio degli sponsor. Nel 1999 è arrivato quello dell’irlandese Henry Morrogh e da lì sono passato alla pista. Ho corso qualche anno in Formula Ford, poi nella Formula 3 italiana e della Formula Renault».
Ha vinto il Ferrari Challenge mondiale nel 2006. Cos’è per lei la Ferrari?
«È l’automobilismo. Non puoi non amarla quando conosci la passione e il carattere di Enzo, il Drake. Sono onorato di averci corso e di collaborarci ancora».
Come fu diventare campione del mondo?
«Era uno dei momenti più difficili della mia carriera. Il percorso nelle monoposto era finito per la mancanza di sponsor e budget. Sono arrivato al Ferrari Challenge quasi per caso: non avevo alcuna aspettativa e ho vinto subito».
Quell’anno morì anche suo padre.
«È stato un mese dopo la vittoria del mondiale. Forse quello è stato il momento migliore, però. Papà ha potuto vedermi mentre mi garantivo un futuro. Il 2006 mi ha segnato nel profondo».
Qual è stato il momento più bello della sua carriera?
«Nel 1999, coi kart. Lottavo con Kubica, Hamilton e Rosberg, prendendole e dandogliele in pista. Siamo stati avversari per due o tre anni, ma in quel momento mi sono autoconvinto che valeva la pena di correre».
Com’era Hamilton prima di diventare “the Hammer”?
«Era tranquillo, si faceva un po’ gli affari suoi. Doveva già gestire la pressione di correre per il team MRL, McLaren Racing Limited. Lo vedevi già allora che era un tipo molto equilibrato».
Dopo tanti anni con le Gran Turismo, nel 2013 arrivano i prototipi. È stato difficile l’impatto?
«Non molto, perché assomigliano parecchio alle monoposto che avevo guidato da ragazzino. In due o tre giri avevo già capito come dovevo far funzionare la Tatuus PY012 che guidavo con Roberto Lacorte ed Enrique Bernoldi. Le differenze però erano tante. Mentre guidando le Gt devi rispettare molto l’auto, per le formula e i prototipi devi solo andare al massimo».
Qual è più difficile guidare?
«Mentalmente, le gran turismo sono difficilissime. Devi essere sempre vicino al limite, senza superarlo ma senza neanche allontanarti. Le monoposto tendono a portare il pilota ben oltre il suo limite».
L’anno scorso a Portimao è risalito su una Ferrari 488.
«Non avevo mai smesso di guidare le Gt, ma sembrava tutto più lento. Non era certo più facile, ma avevo un maggior comfort mentale rispetto ai prototipi».
Quest’anno sarete per la prima volta al via del Mondiale Endurance con la Dallara Lmp2, la Serie A2 dei prototipi. È possibile immaginare un futuro nella Lmp1, la Serie A1 di Le Mans?
«Nel contesto italiano, con gli sponsor che ci sono, direi di no: i costi sono troppo alti. Servirebbe che qualche Costruttore come Ferrari, Maserati o Alfa Romeo decidesse di investire nel nuovo regolamento delle “hypercar”, che entrerà in vigore dal 2021. Quello è l’unico modo: per un privato è semplicemente improponibile».
Ha un circuito preferito, oltre a Le Mans?
«Imola. A parte la tragica fine di Ayrton Senna, su quella pista sono andate in scena molte lotte storiche». —
Niccolò Budoia
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