Contare le calorie con lo smartwatch, ecco lo studio per prevenire l’obesità
L’eccesso di tutela dei dati del paziente rischia di comprometterne il futuro. È questa una delle riflessioni su cui si è soffermato Dario Gregori, professore di Biostatistica del Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare al World Health Forum Veneto in Fiera a Padova.
Professore, come si passa dallo smartwatch alla prevenzione?
«Noi lavoriamo con dei consumer medical device, dispositivi che il consumatore compra perché gli piacciono. Non vogliamo medicalizzare la vita del paziente mettendolo in una condizione psicologica di costante monitoraggio. Tuttavia questi sono device molto accurati che forniscono informazioni estremamente importanti ai fini della salute. Abbiamo progetti in mezzo Veneto che prevedono il coinvolgimento dei pazienti nel monitoraggio di lungo periodo usando device che si comprano praticamente spontaneamente».
Parliamo di smartwatch?
«Smartwatch, cellulari, occhiali, una serie di cose che permettono di trasmettere dei dati a dei server. Poi, però, c’è tutto il problema della privacy».
Ora siamo in grado di produrre e raccogliere una serie infinita di dati ma com’è che si usano in maniera giusta?
«L’uso giusto secondo me è quello che tutela il paziente: devono esserci delle garanzie stringenti per quanto riguarda privacy e disponibilità dei dati. Detto questo, la privacy non deve essere una scusa per bloccare lo sviluppo di una ricerca che invece ha delle potenzialità enormi. La prevenzione primaria per persone che non sono ancora malate ma che devono adottare adeguati sistemi di vita per ridurre il rischio di patologie che potrebbero insorgere è qualcosa di eccezionale. Registriamo parametri come l’ossimetria, la frequenza cardiaca, i livelli di attività fisica, tutte cose oggettivabili e accurate».
Come si passa dal dato all’utilizzo, serve una regolamentazione?
«Sì serve una regolamentazione che permetta il collegamento delle informazioni raccolte dallo smartwatch con quelle relative alla salute, anonime, in modo da capire quando insorgono dei problemi. L’obiettivo importante è riuscire a prevedere, usando serie storiche di dati longitudinali molto fini, che sta succedendo qualcosa al paziente o che potrebbe succedere».
A che punto siamo?
«Il Veneto sconta difficoltà legate, ad esempio, alle limitazioni del garante sull’uso secondario di dati, ovvero raccolti a fini sanitari ma utilizzati per la ricerca. E l’Italia è molto in ritardo: negli Stati Uniti questo tipo di collegamento tra dati “indossabili” e sanitari viene fatto in maniera immediata. Certe indagini che a noi richiedono sei mesi di lavoro burocratico, vengono fatte in mezz’ora sui database esistenti. C’è un gap che sarà difficile da colmare. Dobbiamo lavorare soprattutto dal punto di vista regolatorio per dare ai ricercatori in campo sanitario strumenti per poter competere».
Serve un accesso ai dati?
«Serve un sistema regolatorio che favorisca la ricerca. La mia impressione è che abbiamo un sistema che tutela il paziente ma sfavorisce eccessivamente la ricerca».
Un progetto in particolare su cui state lavorando?
«In Veneto abbiamo una serie di progetti di monitoraggio di lungo periodo dei pazienti con gli smartwatch che permette di dare informazioni senza che il paziente si senta osservato. L’altra cosa che stiamo facendo con un progetto del Pnc è tentare di misurare l’assunzione di calorie usando gli orologi: un sistema basato sul movimento del polso che rappresenta un passo avanti nel controllo del peso. È utilizzabile anche da ragazzini e teniamo presente che l’obesità infantile in Italia è un problema».
La gente è disponibile a collaborare?
«Sì, al netto della percentuale di persone scettiche a priori, ma queste ci sono sempre. Tuttavia abbiamo constatato che anziani che non avevano mai usato uno smartwatch l’hanno indossato per un anno fornendoci le informazioni con regolarità e i figli erano ben contenti di vedere sul monitor cosa facevano i genitori».
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso