Tina Merlin denunciata per i suoi articoli accorati sul Vajont: attorno a lei il silenzio

La corrispondente bellunese dell’Unità venne assolta: il pericolo per la popolazione c’era.

In molti nelle redazioni puntarono il dito sulla natura crudele e sulla fatalità imprevedibile

Toni Sirena
La giornalista Tina Merlin
La giornalista Tina Merlin

«Tutti sapevano, nessuno si mosse», titolava l’Unità il giorno dopo la strage del Vajont. Era vero, come poi risulterà chiaro anche dai documenti del processo che seguì.

Erano gli anni della guerra fredda che aveva diviso il mondo in due blocchi contrapposti e, nonostante i primi accenni di disgelo, non si poteva dare ragione alle sinistre.

Per tutti gli anni Cinquanta si era continuato perfino a vietare l’affissione di manifesti: i testi dovevano essere preventivamente sottoposti al vaglio della Questura che quasi sempre negava l’autorizzazione, in base a leggi di epoca fascista ancora in vigore.

Denunciata per “notizie false e tendenziose”

Non deve dunque stupire se Tina Merlin, corrispondente dell’Unità da Belluno, nel 1959 finì denunciata per un articolo contenente «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, e precisamente la sussistenza di un grave pericolo per l’esistenza stessa del paese di Erto».

Venne assolta: aveva esercitato il diritto di cronaca, il pericolo c’era e l’allarme anche. Ma suscitato dalla Sade.

La vicenda, che assomiglia molto alle odierne “querele temerarie”, un risultato (parziale) comunque lo ottenne: l’Unità consigliò alla sua corrispondente cautela per non incorrere in analoghe disavventure. Nel febbraio del 1961 lei scrisse ancora, denunciando il pericolo di «un immane disastro anche per Longarone».

Gli altri giornali

E gli altri giornali? Tacevano.

«Ho avuto molta solidarietà umana, ma non professionale», disse poi Tina Merlin. «Omissione di verità», ammetterà anni dopo (in una tavola rotonda nel 1993 organizzata dall’Associazione culturale Tina Merlin) Giorgio Lago, direttore del Gazzettino.

Il giornale era certo cambiato, ma per decenni era stato di proprietà della Sade. Che nel 1945 aveva ceduto la proprietà alla Dc veneta. In quell’occasione, Giampaolo Pansa parlò, anche lui, della «grigia informazione dell’epoca».

Una coperta di conformismo e di ossequienza al potere.

Armando Gervasoni, giovane redattore del Gazzettino, sapeva, tentò di scrivere, non uscì una riga. Aveva pronto un libro preveggente, ma il giorno dopo la catastrofe risultò di colpo superato: uscirà postumo, anni dopo, con il titolo “I corvi di Erto e Casso”.

Il copione si ripeté anche dopo il disastro. Poche le voci che accusavano. L’Unità titolò in prima pagina: «È stato un assassinio». Quasi tutti gli altri scrissero di “natura crudele”, di casualità, di imprevedibilità, sentenziarono che “nessuno ha colpa”.

 Gli “sciacalli del Vajont”

I comunisti vennero definiti gli “sciacalli del Vajont” che andavano a rimestare nel fango che ricopriva i cadaveri, dimenticando che proprio l’Unità aveva denunciato il pericolo anni prima.

Una fase della costruzione della diga del Vajont. Sotto, i soccorsi dopo il disastro in una foto di Giorgio Salomon (riproduzione riservata)
Una fase della costruzione della diga del Vajont. Sotto, i soccorsi dopo il disastro in una foto di Giorgio Salomon (riproduzione riservata)

La Sade? Semmai era colpa dell’Enel, ente di Stato che le era subentrato con la nazionalizzazione del dicembre 1962. Come dire: se la diga del Vajont fosse restata in mani private il disastro non sarebbe successo. Centinaia di pagine furono riempite con le lacrime sulle vittime, le storie dei superstiti, le collette nazionali. Tutto giusto. Ma la giustizia?

E i meccanismi di sopraffazione che portarono a quella catastrofe?

«L’arroganza di troppi poteri forti, l’assenza di controllo, la ricerca del profitto a tutti i costi, la complicità di tanti organi dello Stato, i silenzi della stampa, l’umiliazione dei semplici…». Sono ancora parole di Pansa. Che disse nel 1993: «Ma quanti Vajont sono possibili oggi in Italia?». Domanda retorica. Da farsi anche oggi.

Scrisse Joseph Pulitzer: il giornalista è quello che «scruta attraverso la nebbia e la tempesta per dare l’allarme sui pericoli che si profilano». Lo scriveva nel 1904.

Questa funzione di “cane da guardia” (difensore civico, tutela della democrazia) è ancora il fondamento, il sale, del mestiere del giornalista.

Si potrebbe dire che il giornalismo d’inchiesta è quasi un obbligo deontologico. O almeno lo è il “ficcare il naso”, anche nella semplice cronaca, giorno dopo giorno, lo è il guardare ai fatti con occhio critico.

Ma non è facile: i giornali svolgono una funzione pubblica, però sono di editori privati. Non basta l’impegno del singolo, dovrebbe cambiare il sistema. Perché sono sempre meno gli “editori puri”, quelli che non hanno altri interessi da difendere.

Disse, sempre trenta anni fa, Maurizio De Luca, all’epoca direttore di Mattino di Padova, Tribuna di Treviso e Nuova Venezia: «Il giornale non può mai essere strumento di consenso neppure per chi ne detiene la proprietà. Se accettiamo questa funzione, snaturiamo il nostro ruolo di giornalisti, di persone che raccontano alla comunità la verità degli avvenimenti. Altrimenti creiamo un’altra parzialità che annulla il nostro ruolo».

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