La centrale nella montagna

«Mio nonno ha lavorato alla centrale di Soverzene come muratore; partiva prima dell’alba con la bicicletta Atala nera»
Antonio G. Bortoluzzi
La centrale di Soverzene
La centrale di Soverzene

Anche la memoria è un fare dell’uomo. Una grande costruzione con tanti piccoli tasselli, tutti diversi, messi accanto, sovrapposti, stratificati a volte dimenticati, altre volte “fatti sparire” o abbandonati all’oblio del tempo. Siamo stati a visitare la centrale idroelettrica “Achille Gaggia” di Soverzene, cuore del sistema idraulico Piave-Boite-Maè-Vajont.

La centrale è dentro la montagna, cinquecento metri nella roccia. Il grande mosaico a parete dell’atrio d’ingresso che ci accoglie raffigura il bacino del Piave: i corsi d’acqua, le dighe, le condotte, le centrali ed è guardando quelle piccole tessere posate una accanto all’altra, e il cui significato sta proprio nell’essere insieme, che affiorano i ricordi del Novecento. Il secolo delle due Guerre mondiali, del boom economico, della trasformazione di un Paese da prevalentemente agricolo a industriale.

E mi è venuta in mente una storia di tanti anni fa: mio nonno ha lavorato alla centrale di Soverzene come muratore; partiva prima dell’alba con la bicicletta Atala nera, scendeva lungo i borghi della Valturcana, attraversava la piana di Paludi e poi, lungo il canale, in direzione Ponte nelle Alpi e Soverzene. Mio nonno era pratico di muri come tanti dell’Alpago: venivano da una tradizione millenaria di costruzioni, pietra su pietra, e una volta affacciatisi alla modernità hanno conosciuto e ammirato tre elementi favolosi e disponibili: cemento, ferro, laterizio.

Ora conosciamo la devastazione colpevole che la cementificazione ha prodotto su coste, pianure, colline e su, su, fino alle montagne; ma nel dopoguerra, nel cuore della miseria post-bellica, erano una benedizione. Erano tante ore fuori di casa, dall’alba al tramonto, a cui vi era una sola alternativa: emigrare per sempre, o come stagionali, che era un “per sempre” fatto di nove mesi all’anno.

Abbiamo percorso la galleria della centrale di Soverzene, rifinita come un grande ospedale dei tempi andati, fino alla sala macchine ed è stato come lasciare un mondo e accederne a un altro. Grandi “vetrate artificiali” illuminano la maestosa sala come fosse una cattedrale, mentre l'affresco che ricopre il soffitto a volta apre a un cielo di figure allegoriche.

Ma è avvicinandoci a una delle targhette dei quattro alternatori enormi e rossi e leggendo la data “Marelli 1950” che siamo in un altro mondo: il tempo in cui le cose, gli oggetti, gli strumenti erano fatti per durare. Per quanto? “Per sempre” ci dice il tecnico che ci accompagna. “Con la manutenzione corretta, questi generatori sono per sempre”.

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