Cognac per sterilizzare e farsi forza tra il fango e i morti del Vajont: «Ci davano antidoti contro la paura»
Maerild aveva 17 anni: «Spostavamo i tronchi e recuperavamo corpi»
Sopra Erto due alpini della Julia morirono in un incidente in elicottero
«Avevo 17 anni, ero volontario dei vigili del fuoco del Primiero. Ha dovuto firmare mio padre, perché potessi andare a Longarone. “Che venga anche il Bepi che ha esperienza”, aveva detto il comandante. Avevo visto il mio primo morto a 13 anni». Giuseppe Maerild è uno dei soccorritori più giovani arrivati ieri a Longarone, insieme con un altro vigile del fuoco volontario, Giovanni Bravin di Canal San Bovo. «Andavamo con un barcone lungo il Piave – racconta ancora Bepi – dove c’erano delle sacche di acqua, si spostavano i tronchi e si recuperavano i morti». A diciassette anni non deve essere stato facile, ma neppure a venti o ventidue, l’età media che avevano i soccorritori tornati a Longarone.
Anche Carlo Garlet è stato vigile del fuoco, lui era permanente di stanza a Belluno. «Ricordi? Bruttissimi. Sono rimasto a Longarone per dieci giorni, ma poi ci sono stato anche nel 1964: andavamo a recuperare ossa lungo il Piave. Le ruspe tiravano su la ghiaia e noi si occupavamo i resti che emergevano. Avevamo un furgoncino attrezzato, con tre casse da morto, pale e picconi. Senza guanti. Ci si lavava le mani con il cognac, e se ne beveva tanto, ma era l’unico modo per andare avanti».
La ricordano tutti la terapia per andare avanti, a base di cordiale e grappa e probabilmente anche altro. Mario Cedri, di Arzignano, era nel Sesto artiglieria da montagna. Stava tornando in treno da Cuneo e doveva fermarsi a Vicenza, ma il treno ha proseguito la sua corsa, perché era successo qualcosa a Longarone. «Quando siamo arrivati in caserma a Belluno, ci hanno dato pala e badile e ci hanno portato su. Ma il giorno dopo nessuno voleva tornare, dopo quello che aveva visto, così hanno fatto delle squadre che si alternavano. Vicino al cimitero le suore Orsoline che ci davano un bicchiere da bere. Non so cosa fosse, ma dopo non avevi più paura».
I primi ad arrivare a Longarone furono gli alpini del Settimo di stanza a Tai. Giovanni Bittis, di San Giorgio di Nogaro, ricorda che era in libera uscita ed è scattato l’allarme. «Il comandante ci ha detto, non cambiatevi neppure, dobbiamo andare a Longarone, è successo qualcosa, c’è una perdita nella diga. Siamo arrivati che non si vedeva niente, c’era solo un vento fortissimo. All’alba, abbiamo visto la desolazione». Con lui c’era anche Umberto Dalle Rive di Vicenza. «Siamo stati i primissimi ad arrivare e io sono rimasto qui tre mesi. Quando siamo scesi dal camion c’era una cinquantina di persone, che gridava, piangeva e si strappava i capelli. Noi, che non sapevamo niente, siamo rimasti choccati». Umberto, dopo 60 anni, si prende il viso tra le mani e sussurra «mamma mia». Lo choc è continuato a lungo: «Avevo una ragazza, la prima volta che sono tornato l’ho lasciata. Non volevo parlare con nessuno di quanto avevo visto».
Ma non c’erano soccorritori solo a Longarone, erano impegnati anche a Erto. Paolo Cocco era a Tarcento, con l’Ottavo alpini della Julia. «Ero al cinema, ho sentito l’allarme e sono tornato in caserma, siamo stati mandati ad Erto. E ci ho perso due cari amici: erano su elicottero che faceva la spola, hanno colpito il cavo di una teleferica e sono morti».
Tra i più anziani incontrati a Longarone, c’è Bruno Bertoglio, vigile del fuoco, arrivato da Cremona. «Ho 82 anni» esordisce. La nipote, anche lei dei vigili del fuoco, lo corregge: «Ne hai 92». Lui sorride: «Faccio come le donne, mi tolgo gli anni». Da Cremona partì all’alba del 10 ottobre 1963 con altri otto colleghi. «Cosa abbiamo trovato? I morti, le vittime erano tutte nude. Mi sono rimasti impressi soprattutto i bimbi», dice con la voce strozzata. Sono passati 60 anni, ma a tutti loro sembra di essere tornati a quei giorni di desolazione, nei loro occhi non c’è Longarone, ma una distesa di ghiaia e melma. ma.co
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