Elezioni. Jori: nella caccia ai voti i partiti giocano la carta dei sindaci
Hanno rappresentato lo sportello periferico dello Stato (incluse le sue tante disfunzioni) di fronte ai loro cittadini, mettendoci la faccia; in stragrande maggioranza sono stati eletti e rieletti per merito oggettivo. Ma dallo Stato però sono stati sistematicamente mal – trattati
Tocca ai riservisti. Nell’ultima domenica di guerra elettorale prima del voto, due tra i principali belligeranti hanno lanciato ieri la chiamata alle armi degli scaglioni tenuti finora nelle retrovie: i sindaci. S’è udito a destra lo squillo di tromba della Lega da Pontida, a sinistra ha risposto quello del Pd da Monza, in una versione 4. 0 del manzoniano Conte di Carmagnola: “quinci spunta per l’aria un vessillo / quindi un altro s’avanza spiegato”.
Mossa estrema, della disperazione, con il dubbio che funzioni davvero; specie perché viziata da una logica dell’ultima ora, mobilitando truppe finora tenute in scarsa o nulla considerazione. Nel precario funzionamento delle istituzioni, i sindaci sono stati e sono l’ultima riserva della Repubblica; con maggior evidenza dal 1993, quando venne introdotta la loro elezione diretta.
Hanno rappresentato lo sportello periferico dello Stato (incluse le sue tante disfunzioni) di fronte ai loro cittadini, mettendoci la faccia; in stragrande maggioranza sono stati eletti e rieletti per merito oggettivo non per cooptazione dall’alto; negli indici di fiducia hanno regolarmente superato i livelli centrali.
Dai quali però sono stati sistematicamente mal – trattati: caricandoli di funzioni e spogliandoli di risorse per adempierli; lasciandoli soli in prima linea nelle emergenze, dalle calamità naturali al Covid; guardando tra sospetto e ostilità al rilievo assunto dai più popolari tra loro.
Con la sinistra in prima linea, tra un D’Alema che li definì sprezzantemente “cacicchi”, e un Amato che svilì il loro movimento bollandolo come “centopadelle”.
Non è stata di meno la Lega: da un Bossi che fulminava a colpi di diktat ed espulsioni ogni loro tentativo di autonomia, a un Salvini che nel suo regime di monarca assoluto li ha trattati come meri vassalli. Sa scopertamente di strumentale averli chiamati a raccolta solo a ridosso delle urne, per impiegarli come sturmtruppen dell’ultima ora da lanciare nella mischia.
Quasi tutti ci staranno comunque, più per senso del dovere che per convinzione; che poi funzioni, c’è da esserne scettici. Perché anche nel loro caso, come in tutte le declinazioni della marcia verso il voto, c’è un vizio di fondo: un consenso che si va a cercare all’ultima ora, anziché coltivarlo lungo tutto l’arco della legislatura; dispensando promesse di cartapesta anziché far leva su proposte tarate sulla realtà.
Più di settant’anni fa, uno dei pochi veri statisti italiani quale Alcide De Gasperi suggeriva: “Cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni”. I suoi successori hanno fatto e stanno facendo il contrario, servendosi in questa frenetica caccia al consenso anche di chi, come i sindaci, è abituato da sempre a rimanere ancorato al concreto.
Ha ragione da vendere un analista di vaglia come Giuseppe De Rita, quando denuncia che questa campagna elettorale si è trasformata in una litigata quotidiana su chi offre più tutele alla gente: ti diamo questo, io ti do di più, io allora rilancio.
Un bluff consapevole, coinvolgendo perfino la più credibile istituzione repubblicana come i sindaci; destinato a essere messo a nudo dopo la mezzanotte del voto. Quando le finte carrozze tornano a essere autentiche zucche
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