I camosci sentinella del clima che cambia. Il bosco prealpino diventa il loro rifugio

Al via uno studio sulla popolazione del Monte Grappa.

Il professor Apollonio: «Sfuggono al caldo e cercano cibo»

Francesco Dal Mas
I camosci si stanno adattando a vivere a quote più basse (foto archivio polizia provinciale)
I camosci si stanno adattando a vivere a quote più basse (foto archivio polizia provinciale)

Sono ormai 500 i camosci sul monte Grappa, distribuiti tra le province di Belluno, Treviso e Vicenza. I lupi (tre branchi sulla stessa montagna) li risparmiano, o meglio preferiscono la carne di muflone, se non addirittura quella di cinghiale. Il camoscio, immaginato a popolare le alte quote, dal 1994 abita anche i 500 metri delle Prealpi trevigiane e bellunesi e, anzi, è destinato ad incrementare la sua presenza.

Il motivo? «È il selvatico che meglio si adatta ai cambiamenti climatici», secondo il professor Marco Apollonio, docente di zoologia dell’Università di Sassari, che ormai conosce il Grappa come le sue tasche; ha infatti collaborato con la Regione nel monitoraggio del lupo e nella sperimentazione di nuove forme di dissuasione del carnivoro dalle predazioni sparando pallini di gomma.

Importato da Cortina (8 esemplari) e dalle Alpi Marittime (29 anni fa), il camoscio potrebbe scendere addirittura di quota, spinto dalla fame e dalle temperature sempre più alte. Venticinque tra gli esemplari del Grappa verranno infatti catturati e radiocollarati per capire i loro comportamenti in relazione ai cambiamenti del clima, al caldo sempre più torrido e al freddo non sempre così gelido.

«Si tratta di un progetto di studi finanziato dal Pnrr, che fa capo al Centro nazionale per la biodiversità, ideato dal professor Apollonio», spiega il presidente della Provincia, Roberto Padrin, «e che sarà portato avanti, per tre anni, dalla Polizia Provinciale di Belluno, d’intesa con i competenti uffici di Treviso e Vicenza, con la Regione Veneto e con le Riserve di caccia».

In un incontro martedì 16 maggio a Palazzo Piloni, Apollonio ha spiegato che il cambiamento climatico esiste da sempre, ma negli ultimi trenta-quarant’anni agisce a una velocità tale da non permettere agli animali di adattarsi con facilità. «Gli effetti finora osservati sul camoscio ci mostrano che le popolazioni alpine sono in diminuzione, e dagli anni ’80 in avanti gli esemplari giovani pesano sempre meno, vale a dire che si presentano più deboli. Nel tempo, il rapporto tra giovani e adulti continua a diminuire, significa che i piccoli non riescono ad arrivare a diventare adulti, se non con sempre maggiore difficoltà. E questo perché più aumenta la temperatura, e i camosci mangiano meno. Ma non è così ovunque».

Secondo Apollonio, il camoscio è una specie con una diffusione in una fascia altimetrica molto vasta: va dai 500 ai 3.000 metri. «E alcune popolazioni di bassa quota sembrano rivelare una resistenza e uno stato di salute maggiore. L’ipotesi fatta è che il bosco possa rappresentare un’area rifugio, soprattutto nella funzione di attenuare l’effetto dell’aumento della temperatura».

Ha la sua importanza anche l’alimentazione: le temperature più alte anticipano le fioriture vegetali, rispetto ad esempio al risveglio dal letargo o ai tempi della riproduzione, per cui questi sfasamenti comportano la trasmigrazione degli animali. «Lo stambecco è destinato a soccombere ai cambiamenti del clima più di ogni altra specie di selvatici», ha riferito Apollonio.

Cambiamenti che avranno sempre più un’influenza pesante sull’attività degli stessi selvatici. I quali, magari, preferiranno muoversi di notte, quando fa più fresco, ma nelle ore notturne, come si sa, i predatori si concedono tutte le razzie immaginabili, con grave rischio dunque per gli ungulati.

Apollonio assegna particolare importanza all’alimentazione condizionata dagli sbalzi (e non solo) di temperatura. I giovani camosci, oppure stambecchi o i piccoli di capriolo, dimostrano di cibarsi di alimenti poco adatti, perché altro non trovano, per cui tanti di loro non sopravvivono al primo inverno e quelli che ce la fanno risultano però più magri.

Il monte Grappa, con tanto bosco, ma anche con tanto pascolo e prato, e pure con qualche insieme roccioso, si presenta al camoscio come una location ottimale: per il fresco garantito dagli alberi, che invece l’animale non troverebbe sulle crode; per l’opportunità di raffreddare il corpo a terrà che manca, invece, alle quote più alte.

Certo, il lupo è sempre in agguato. Ma la speranza degli esperti è che, esaurita la possibilità delle predazioni più facili, cambi destinazione. «Certo, ve la immaginate questa concorrenza tra lupi, camosci, mufloni, cervi, caprioli, cinghiali per la sopravvivenza? È un mondo, una prospettiva che non ci saremmo immaginati fino a qualche anno fa». 

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