Elezioni regionali, il centrosinistra veneto è senza rotta
C’è di tutto nella lista dei papabili, ma destra e sinistra continuano a ignorare un dato assolutamente centrale: quattro veneti su dieci da tempo disertano le urne, delusi se non schifati dalla deriva di una politica sempre più distante dalla vita di tutti i giorni

Tafazzi for president. A sei mesi dal voto per le regionali, il centrosinistra veneto sfoglia un nutrito catalogo di candidati di ogni taglia e formato, ispirandosi ad una comune caratteristica: interpretare la parte del noto comico, implacabilmente dedito ad autoflagellarsi.
C’è di tutto, nella lista dei papabili sciorinata in questi giorni: vecchie glorie e giovani rampanti, pretoriani di partito e neofiti della politica, ex combattenti e le immancabili figurine da teleschermo.
Una sorta di mediocre talent show dell’urna, da cui estrarre alla fine un vincitore; destinato comunque a durare lo spazio di un mattino.
È una prassi in cui il centrosinistra, in Veneto, dimostra una perversa coazione a ripetere: negli ultimi trent’anni, sei volte si è votato per le regionali, e sei volte ha inanellato sistematiche sconfitte tracimate a volte in autentiche batoste.
Il centrodestra lo ha sopravanzato del 55 per cento a 32 nel 1995; del 55 a 38 nel 2000; del 50 a 42 nel 2005 (l’esito meno urticante); del 60 a 29 nel 2010; del 50 a 23 nel 2015; addirittura del 77 a 16 nel 2020. Non diversamente è andata negli altri livelli elettorali: per stare ai più recenti, 56 a 23 alle politiche 2022, 58 a 25 alle europee 2024. E il partito principale, il Pd, nelle ultime tre regionali è sceso dal 20 al 12 per cento; risultando il fanalino di coda nella graduatoria di consensi della casa-madre.
Tra le componenti di queste spazzolate seriali, figura la scelta del candidato: di volta in volta, la coalizione ha piazzato in freezer il problema all’indomani della sconfitta; ci ha messo mano a una manciata di mesi dal voto; ha sfornato una serie di nomi regolarmente cecchinati; alla fine ha puntato su una carta che, oltre a essersi rivelata perdente nelle urne, è letteralmente sparita in corso di legislatura, lasciando l’opposizione priva di un vero leader.
Esattamente quello che sta (ri)facendo adesso, dandosi oltretutto una scadenza a fine maggio: quando mancheranno cinque mesi al voto, per giunta con l’estate di mezzo. E con la ricorrente quanto deleteria tentazione di puntare su un volto per racimolare consensi nei seggi, non su una figura in grado di interpretare comunque un ruolo politico per i cinque anni successivi, anche in caso di sconfitta.
Più di facciata che di sostanza risulta la scelta di allestire qualche decina di gazebo, nello scorso fine settimana, per chiedere agli elettori indicazioni sul programma. È fin troppo nota, la cartella clinica di un Veneto che sta perdendo colpi e terreno, a partire dal sorpasso della vicina Emilia: un’anagrafe sempre più vecchia, un territorio sempre più devastato, un’economia sempre più logorata, un’area di emarginazione sempre più estesa; perfino la sanità si sta rivelando un fiore all’occhiello sempre più appassito, al di là delle sue punte di eccellenza. Ed è singolare che sia la politica a chiedere alle persone “cosa dobbiamo fare?”, anziché mettere in campo le idee su cui puntare e gli uomini cui affidarle. Magari coltivando, più o meno espressamente, la speranza che il centrodestra si faccia del male da solo: illusorio, perché alla fine le sue componenti raggiungeranno comunque un accordo blindato.
In tutto questo, il centrosinistra (ma pure la sua controparte…) continua a ignorare un dato assolutamente centrale: quattro veneti su dieci da tempo disertano le urne, delusi se non schifati dalla deriva di una politica sempre più distante dalla vita di tutti i giorni. Non votano, ma ci sono: chissà, accorgersi di loro potrebbe perfino servire a evitare tra pochi mesi il settimo tragico sigillo. —
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