Anna, partigiana di 97 anni: «Ho rischiato, ma non potevo girarmi dall’altra parte»
Giornata della memoria: la suseganese Granzotto racconta la storia della Seconda Guerra Mondiale e della persecuzione nazista dal suo punto di vista. Ha salvato trenta giovani e il marito deportato
Quando sei stata partigiana a 17 anni, lo sarai sempre, anche a 97. Quando hai vissuto ingiustizie e cattiveria, lotterai sempre per farle finire. Quando hai provato sulla tua pelle la mancanza di libertà, non potrai che incitare tutti a votare per la democrazia. E quando la guerra ha travolto la tua vita, continuerai, fino a quando avrai voce, a farti portavoce di pace.
In occasione della Giornata della Memoria, la suseganese Anna Granzotto, classe 1927, residente a Collalbrigo, ci ha raccontato la storia della Seconda Guerra Mondiale e della persecuzione nazista dal suo punto di vista. Di giovani partigiani ne ha salvati almeno una trentina.
Anna, come ha conosciuto e vissuto la guerra?
«Dopo l’otto settembre del 1943, l’armistizio, abbiamo accolto i militari che rientravano dal fronte. Come famiglia di mezzadri di Susegana abbiamo dato da mangiare a tutti, loro non potevano attraversare il Ponte della Priula, occupato dai Tedeschi. Io facevo la polenta, mia zia tagliava formaggio e salame. Quante divise abbiamo bruciato. Abbiamo cercato di aiutare questi militari che nel caso fossero stati fermati nei posti di blocco, sarebbero stato deportati».
Poi è diventata partigiana?
«Un mio compagno delle elementari era diventato partigiano e di stanza era in Cansiglio con la Brigata Mazzini. È sceso dalla montagna e, rischiando per la presenza dei Tedeschi, è venuto fino a casa a chiedermi di dare una mano. Non ho potuto dire di no, avevo già capito che si deve aiutare, si deve aprire il cuore. Nell’inverno tra il 1943 e il 1944 veniva giù di vedetta, per controllare la situazione del Ponte sul Piave. Mi hanno detto di non fidarmi di nessuno. Io non ho detto niente anche in famiglia. Ma ho messo una scala per salire sul fienile, dove i partigiani potevano riposare e potevano anche controllare il ponte. Poi portavo loro del cibo».
Lei ha rischiato in prima persona: se l’avessero scoperta, avrebbe pagato con la vita...
«Ho rischiato, sì, ma non potevo girarmi dall’altra parte. Nell’agosto del 1944 in Piemonte è stato ucciso anche il fratello di mio papà, aveva 42 anni e una famiglia. Oltre la disperazione, è cresciuta ancora di più la voglia di fare qualcosa, era mio dovere. Io portavo in giro anche la stampa, per far conoscere la situazione in cui eravamo. Ad un certo punto è diventato troppo rischioso ospitare i partigiani da noi, c’erano rastrellamenti e bruciavano le case. Così mi aspettavano in collina, dove c’erano delle gallerie del Prima Guerra Mondiale, che ho suggerito di usare per spostarsi e controllare il ponte sul Piave. Portavo loro del cibo, mentre facevo credere di andare lassù per fare fieno, e alzando e abbassando delle lenzuola che avevo posizionato nel bosco facevo capire ai partigiani quando muoversi».
Lei è stata partigiana e ha conosciuto, tramite suo marito, anche il dramma della deportazione in un campo di concentramento...
«Solo dopo mesi che eravamo sposati ha avuto il coraggio di raccontarmi l’inferno che ha vissuto. Emilio è stato fatto prigioniero a Mauthausen e in seguito spostato sempre in quella zona per lavorare 12 ore al giorno per costruire le gallerie dove i Tedeschi volevano attivare delle fabbriche di armi. Poi ha fatto il panettiere e ha rischiato la vita per sfamare altri tre altri prigionieri, portandosi a letto ogni sera un filone di pane. C’erano prigionieri ebrei, fu tra i pochi ad avere il coraggio di aiutarli. Quando è stato liberato pesava 37 chili».
La guerra ha creato anche legami indelebili, come quello tra un prigioniero russo e suo marito.
«Nel male per fortuna in quell’occasione è prevalso il bene. Il coraggio di mio marito che ha rischiato la vita per sfamare altri. Per questo l’ho sempre ammirato. Appena dopo la liberazione, proprio uno dei tre prigionieri, quello russo, ha realizzato con il ferro delle bombe e regalato a mio marito un anello con le sue iniziali. Un anello che mio marito non si è mai tolto, neanche nel giorno del matrimonio. Chi è stato privato una volta della liberà sente la necessità di lottare per difenderla. Per quello dico sempre che bisogna andare a votare. Vorrei ci fosse più democrazia e più amore tra le persone».
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