Treviso. Sparisce un miliardo: la direttrice infedele di Veneto Banca non dovrà risarcire

Treviso. Vent’anni di causa per un ammanco all’ex Bcc del Piave I clienti non sono riusciti a dimostrare la consegna dei soldi

TREVISO. Vent’anni di causa contro una dipendente infedele di Veneto Banca finiscono con la beffa: i risparmiatori non si vedono riconoscere la cifra chiesta come risarcimento (oltre un miliardo delle vecchie lire), ma al contrario vengono condannati a pagare 10.200 euro di spese legali in Cassazione.

Oltre 6.700 giorni di ricorsi, carte bollate, aule di tribunale. È il 23 giugno 1999 quando il Tribunale di Treviso emette il decreto ingiuntivo con cui impone alla Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza (poi assorbita da Veneto Banca) il risarcimento di un miliardo e 73 milioni di lire a favore di quattro correntisti della filiale di Fossalta Maggiore che denunciano gli ammanchi causati, a loro dire, dalle distrazioni operate dalla direttrice, Maria Teresa Favero.

Dopo un’odissea durata vent’anni la Corte di Cassazione pubblica, il 29 dicembre 2017, l’ultimo capitolo della vicenda, che vede soccombere i risparmiatori: nessun maxi risarcimento, non sono riusciti a dimostrare di aver versato quelle cifre nelle mani della direttrice della filiale trevigiana.

Il caso della filiale di Fossalta è esploso all’inizio del 1999. La direttrice Favero, condannata nel successivo processo, sottrasse in 9 anni circa 15 miliardi di lire ai risparmiatori, fingendo investimenti ad alto rendimento che in realtà non eseguiva. In questo filone si inserisce la denuncia di un gruppo di risparmiatori del Credito Cooperativo del Piave e del Livenza, che chiedono appunto al Tribunale di Treviso un miliardo e 73 milioni di lire per aver versato ingenti somme di denaro sui loro conti correnti, delegando l’istituto bancario alla negoziazione di strumenti finanziari.

Una volta scoperti gli ammanchi, il Tribunale di Treviso emette il decreto ingiuntivo che viene però appellato dalla banca, disponibile a versare ai risparmiatori, a titolo di risarcimento, soltanto un milione e 800 mila lire. Il Tribunale revoca il decreto, e successivamente la Corte d’Appello di Venezia (siamo ormai arrivati al 2012) rigetta l’appello proposto dai correntisti.

«Gli appellanti non hanno provato di aver effettuato i versamenti, sui loro conti correnti o direttamente nelle mani della direttrice dell’epoca, superiori alle somme che hanno poi ottenuto a titolo di risarcimento» recita la sentenza di secondo grado, che impone ai quattro correntisti di pagare le spese legali. È il turno, quindi, del ricorso all’ultimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione. La partita giudiziaria in questa fase è tutta contro Veneto Banca, che nel frattempo ha rilevato l’istituto e, al tempo stesso, la “grana” degli ammanchi causati dalla direttrice. Un centinaio gli imprenditori che hanno citato in solido Veneto Banca con la Favero. In un caso l’istituto aveva sostenuto in aula che il cliente era del tutto consapevole del fatto che la Favero non annotasse le operazioni nelle scritture contabili «e quindi il preteso credito era irricostruibile per colpa del cliente. Anzi l’uomo aveva scelto la Favero proprio perché gli garantiva l’anonimato per un’attività bancaria fuori da ogni regola».

Di “credito irricostruibile” si è parlato anche per i quattro risparmiatori che sono arrivati fino alla Suprema Corte. Impossibile dimostrare l’esatta cifra da loro depositata nei conti correnti, e impossibile verificare se davvero quei soldi fossero passati per le mani della direttrice infedele. In ogni caso, dopo vent’anni di causa la doccia fredda: respinto il ricorso in Cassazione e confermata la sentenza di appello, con la beffa del pagamento extra di altri 10.200 euro di spese legali.

 

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