Rosina: «Troppe poche nascite, siamo vicini al baratro. Imprese senza ricambio»

Il professor Alessandro Rosina relatore venerdì 14 marzo alle 16.30 a Treviso sul calo demografico. Aumentati gli expat under 35: «Dobbiamo rendere l’Italia un Paese appetibile per i giovani». Ecco come iscriversi all'evento

Lorenza Raffaello
Culle vuote, la denatalità preoccupa anche le aziende
Culle vuote, la denatalità preoccupa anche le aziende

«Siamo in una situazione quasi disperata, ma non siamo ancora al punto di non ritorno. Abbiamo delle chance per invertire la rotta prima di cadere nel baratro». Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano, che introdurrà l’evento “Il gelo demografico e le aspettative delle imprese” di venerdì 14 marzo alle 16.30 alla sala conferenza di Santa Caterina, a Treviso, sceglie di non essere definitivo quando parla di inverno demografico, nonostante tutto faccia pensare di essere vicinissimi al capolinea. Non confondiamolo con facile ottimismo: per fare in modo di modificare la caduta verso il basso dovrebbero realizzarsi contemporaneamente almeno quattro condizioni che spaziano dalle politiche familiari e di genere, a quelle economiche, sul lavoro e sull’immigrazione.

 

 

Il tasso di natalità

Rosina parte da una premessa: «L’equilibrio nel rapporto tra generazioni è quello dato dalla media di due figli per donna, che consente a due genitori di essere sostituiti una volta che non ci saranno più, se fosse così anche con una popolazione che invecchia, si genererebbe un territorio di crescita, capace di far funzionare l’intero sistema e di essere sostenibile dal punto di vista demografico».

La situazione reale, però, è ben lontana da questo: «Il problema è che è da oltre 40 anni che il tasso di fecondità è sotto ai 1,5 figli e manca sempre di più la natalità necessaria che consente al sistema di reggere e, quindi, produce benessere dal punto di vista economico e la sostenibilità del punto di vista sociale, ma nel frattempo il problema si aggrava perché la popolazione in età lavorativa si riduce: non è come 25 anni fa, dove avevamo una fecondità bassa, ma la popolazione in età da avere figli, giovane, era ancora consistente, ora mancano anche i lavoratori».

I dati

L’Italia ha un indice di dipendenza degli anziani (rapporto tra 65 e più su popolazione tra i 20 e i 64 anni) che ha superato il 40% e si trova di circa 14 punti percentuali sopra la media Ue-27. Secondo le previsioni Eurostat potrebbe continuare a salire fin oltre il 65%. L’indice di dipendenza economica (inattivi di 65 anni e oltre su occupati tra i 20 e i 64 anni) ha superato il 60%, anch’esso circa 14 punti percentuali sopra la media europea. Il problema non è l’aumento del numeratore, legato all’aumento della longevità, quanto la maggior riduzione del denominatore. In particolare, da dieci anni è entrata in fase di continua e sensibile riduzione la componente che tradizionalmente è stata al centro della crescita economica del paese.

La popolazione maschile nella fascia 35-49 è, infatti, scesa da oltre 7 milioni nel 2014 a 5,7 milioni nel 2024 e continuerà inesorabilmente a ridursi nei prossimi decenni. Il tasso di occupazione degli uomini di tale età è attorno all’85%, valore molto vicino alla media europea. Ancora, il numero complessivo di occupati nella fascia 35-49 è sceso da circa 10,5 milioni nel 2014 a meno di 8,8 milioni del 2024. Il margine per controbilanciare tale declino sta nella misura dell’aumento dell’occupazione femminile, il cui valore è attualmente attorno al 65% in tale fascia che attualmente è il più basso tra i paesi Ue-27, cioè circa 13 punti sotto la media.

Gli scenari

Secondo Rosina esistono due tipi di scenari, uno mediano quello cioè che è quello considerato più verosimile, poi ce ne è un altro “target”, quello che sarebbe l’ottimale. «Abbiamo perso la possibilità di rientrare nello scenario ottimale, perché fino a pochi anni fa si prevedeva che le nascite tornassero ad aumentare, cosa che non è successo».

L’Istat ha definito oggi altri scenari: «Si potrebbe puntare a quello più favorevole, ma solo se proprio ci sforzassimo a applicare le politiche attive negli altri Paesi, come le politiche familiari, gli investimenti sui giovani, delle politiche abitative, delle politiche di conciliazione vita-lavoro, un’immigrazione ben gestita. Se ci fossero queste determinate politiche allora potremmo convergere verso lo scenario più alto, in cui le nascite possano tornare a salire e quindi la tendenza si invertirebbe, ma se aspettiamo qualche anno, nemmeno più lo scenario alto potrà riuscire a garantire nuove nascite utili per far arrivare a modificare la tendenza. Ecco perché non siamo ancora oltre il punto di non ritorno, ma siamo vicini nel senso che possiamo evitare il punto di non ritorno solo se mettiamo in campo il meglio delle politiche che possiamo fare».

L’occupazione femminile

Si tende a credere che la demografia sia una questione di appannaggio esclusivamente femminile. Credenza non più accettabile: «Sono le coppie che fanno i figli», dichiara il professore, «le cose devono cambiare, non solo nella conciliazione tra vita privata e lavoro, ma anche nella condivisione all’interno delle coppie, della scelta di avere un figlio e dell’impegno che questo richiede. Sono necessarie politiche familiari che consentano alla natalità di essere sostenuta come scelta e far sì che le coppie che hanno figli possano farlo in condizioni adeguate».

Secondo Rosina le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia coincidono con «servizi per l’infanzia di qualità, con tariffe accessibili, e tutti gli strumenti e i congedi di maternità e paternità. Le politiche di conciliazione consentono alle donne che hanno figli di poter lavorare e alle donne che lavorano di poter avere figli».

Eppure questo non basta: «Se cresce la natalità oggi, l’impatto vi vedrà tra 20 anni e solo allora si modificheranno gli squilibri della forza lavoro, quindi oltre alle politiche familiari serve anche ripensare all’immigrazione, questo da un lato consentirebbe di rispondere immediatamente alle esigenze in quei settori lavorativi in cui manca manodopera, ma non solo, creerebbe anche nuove coppie e famiglie».

I giovani e gli expat

«Bisogna anche migliorare la capacità dei giovani di diventare autonomi rispetto alla famiglia, di scegliere di rimanere nel territorio in cui sono nati e di trovare politiche abitative e di salario adeguate a loro. Ma più importante di tutto è la loro formazione».

Come docente universitario, l’occhio di Alessandro Rosina è mezzo privilegiato per capire i giovani: «I ragazzi si confrontandosi con i coetanei europei e sanno che questo Paese ha un debito pubblico molto elevato, si rendono conto che quando saranno adulti saranno pochi e dovranno pagare tasse elevate per mantenere le persone in pensione, mentre hanno stipendi più bassi e possibilità inferiori. Noi adulti dovremmo dire loro che se saranno ben preparati, diventeranno la risorsa principale di cui le aziende avranno bisogno se vogliono crescere ed essere competitive». Intanto si sta verificando una nuova ondata migratoria dei giovani laureati del Nordest. Nel 2022 oltre la metà dei giovani che sono partiti da Friuli-Venezia Giulia erano laureati, expat laureati invece il 49,2% dei giovani del Veneto. Andando nello specifico, nel 2023 sono stati 3.759 i veneti tra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero, mentre considerando il periodo tra il 2011 e il 2023 il Veneto ha salutato ben 34.896 under 35. Numeri inferiori in Friuli Venezia Giulia: nel 2023 sono partiti 836 giovani, mentre in 12 anni ne sono partiti 9.113. Di questi il 74% si è trasferito perché ha trovato un’occupazione stabile e, probabilmente, meglio retribuita di quella dei coetanei rimasti.

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