Papa Francesco e i trevigiani, quell’incontro a parlare (anche di cinema): «Amava il neorealismo»
L’incontro alla sala Clementina del Vaticano con l’Associazione cattolica esercenti. Il racconto ai trevigiani: «Andavo a vedere i film con mia madre, adoro il neorealismo»

Quando Papa Francesco entrò nella sala Clementina del Vaticano l’atmosfera si fece sospesa, quasi il tempo si fosse fermato, in un silenzio rarefatto, come se nessuno respirasse. Un effetto che solo personalità dal carisma ineguagliabile sono in grado creare, per la loro stessa presenza, recante con sé un vissuto ancestrale, benedetto da un’aura d’incanto, magia e sogno, come in un film.
E proprio di film era venuto a parlare il Pontefice, il 7 dicembre del 2019, ai rappresentanti dell’Acec - Associazione cattolica esercenti cinema, accompagnati da monsignor Stefano Russo, l’allora segretario generale della Cei.
Tra loro i gestori delle Sale della comunità, che nella Marca sono l’Aurora di Treviso, il Busan di Mogliano Veneto, il Careni di Pieve di Soligo e il Turroni di Oderzo, con i loro volontari, i referenti dell’associazione e un gruppo di consulenti e critici cinematografici.
Dopo un discorso scritto e letto con grande partecipazione, sull’importanza di superare l’autoreferenzialità nel nostro agire quotidiano e professionale, Papa Francesco ha deposto i fogli per lasciarsi andare a riflessioni estemporanee e personali, come fossero confidenze tra cinefili, dispensando aneddoti, ricordi e brividi.
“I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica era il suo film italiano preferito, e considerava il neorealismo come cenacolo autoriale di riferimento per la sua infanzia, quando andava al cinema con la mamma. «Una scuola di umanesimo», lo ha definito il Santo Padre, quasi una sorta di battesimo, un’investitura del cinema del secondo dopoguerra come punto di riferimento per uno sguardo agli umili, agli ultimi, ai dimenticati della Terra e del grande schermo, reduce in Italia dalle opere di apologia del fascismo e ancor prima dalla commedia americana d’intrattenimento.
«Un giorno faremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna a casa», scrivevano De Sanctis e Alicata nel 1941, tracciando un sentiero che portò a “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, “Sciuscià”, “Umberto D.”, “Riso Amaro”, con i loro protagonisti poveri, oppressi, sfruttati, ma mai senza speranza.
Un manifesto cinematografico ante litteram dell’operato di Papa Francesco, che ai referenti attuali e in carne ed ossa di quei personaggi, ha dedicato il suo sguardo misericordioso, la sua attenzione e il suo continuo monito affinché tutti noi ci accorgessimo di loro. Dopo il discorso comunitario il Pontefice ha dedicato ad ogni partecipante un saluto personale, una stretta di mano e un breve scambio.
Incontrare il suo sorriso porta a comprendere quanto fosse forte la luce dei suoi occhi, incastonati nella sofferenza già manifesta sul suo volto e sul suo corpo provato, seppur instancabile. Un testamento spirituale lasciato a chi opera perché il cinema sia un ponte tra la realtà e un immaginario che promuova consapevolezza per la solidarietà e la pace.
Eredità che Papa Francesco ha trasmesso anche a molti altri operatori culturali e artisti del nostro territorio, tra cui il cantautore di Motta Pablo Perissinotto, che fu ricevuto in Vaticano nel 2016 per presentare il suo brano “Speranza”, e il compositore di Treviso Lodovico Saccol, autore della canzone per bambini “La pace… si può”, che incontrò il Santo Padre nel 2019. Ed Erica Boschiero, che ha cantato per lui l’ultima volta nell’agosto scorso.
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso