La mappa di affetti che sta tra le Rose e Mario il cercatore
LE ROSE
Il primo giorno dell’anno era sacro per la famiglia: si andava tutti a festeggiare a case delle zie vedove di guerra. L’appartamento era di quaranta metri quadrati, al quinto piano di un edificio popolare, nel rione più popolare della città. Non c’era l’ascensore, né il riscaldamento. Qualcosa che assomigliava vagamente a un bagno stava sul piano, serviva quattro appartamenti e aveva sempre la finestra aperta per via degli odori degli scarichi. Si formavano stalattiti di ghiaccio che noi bambini spezzavamo e usavamo come lance per i nostri tornei di cavalleria. A me toccava fare il cavallo perché ero grosso.
Ci vediamo il primo di gennaio in Siberia! era il modo di dire in famiglia.
Faceva così freddo che andavamo con due maglioni, la calzamaglia, i guanti e il cappotto. Non esisteva l’appendiabiti, d’altronde nessuno avrebbe mai osato spogliarsi. Tranne le zie, che anche a novantanni vestivano con dei maglioncini leggeri. Erano minute, avevano la pelle d’avorio, i capelli argentati, i nasi rossi per il gelo. O per la grappa, diceva qualche parente.
Si chiamavano entrambe Rosa, erano sorelle, avevano perso entrambi i mariti nella Seconda guerra mondiale e non si erano più risposate. Per tutti noi erano le Rose, anzi: le Rose d’inverno.
Eravamo in genere una trentina, ma una volta riuscimmo a stiparci in quaranta. Uno al metro quadro, compresi neonati e invalidi.
Non deve mancare nessuno, neanche i morti! dicevano le zie.
Dei morti si parlava con un rigido ordine: dai morti recenti fino ai morti di cui nessuno ricordava più la voce, parenti che erano emigrati chissà in quale continente ed erano sepolti chissà dove. Li evocavamo e li invitavamo a unirsi a noi.
Era davvero un’assemblea dei vivi e dei morti, la festa del primo gennaio. Un raduno dei secoli e degli alberi genealogici. E le zie erano le sentinelle di un mondo che stava per scomparire. Quando morirono, vent’anni fa, tentammo di mandare avanti la tradizione. Fallimmo miseramente.
Domani vieni a casa? mi ha chiesto oggi mamma.
Non lo so.
Anche solo per un saluto.
Cercherò.
Ti ricordi che giorno è domani, vero?
Certo che mi ricordo, mamma.
Mi manca tanto.
Un tempo, quando ancora esisteva un frammento di quel mondo antico, l’ultimo giorno dell’anno lo dedicavamo a ricordare. Papà, mamma ed io facevamo l’elenco di tutti i parenti vivi e morti. Loro dettavano e io scrivevo su un cartellone. Quando non ricordavano come si chiamasse qualcuno, telefonavano a un parente che viveva dall’altra parte del mondo. Papà e mamma non si ricordavano mai il fuso orario, per cui non sapevi quale potesse essere la reazione, ma c’era una parola che era un passepartout: Rose. Se dicevi che chiamavi per la festa delle Rose, anche se avevi appena buttato giù dal letto il tuo cugino di settimo grado, quello andava a rovistare nei suoi diari e ti dava l’informazione che stavi cercando.
Tanto amore per le Rose! gridava il cugino.
Tanto amore per le Rose! gridavamo in coro.
Tutto quell’amore non tornerà, dice mamma.
O forse vaga tra i cavi del telefono di mezzo mondo, dico io.
Forse si nasconde proprio lì l’eternità, dice mamma, sorridendo.
L’AURA
Una delle due Rose aveva un figlio: si chiamava Mario. Nacque durante la seconda guerra mondiale e non conobbe mai suo padre. Era mio secondo cugino ma lo chiamavo zio. Da bambino mi portava in giro per osterie.
Devo fare pipì, diceva, proviamo a vedere se là dentro c’è un bagno.
Entravamo, mi lasciava in compagnia dell’oste e andava in bagno. Ne usciva tutto sorridente, come se fosse uscito da una festa, ordinava un calice di vino per lui e un bicchiere d’acqua frizzante per me. La mia acqua me la sporcava con un goccio di vino. Ogni anno versava una goccia in più, finché un giorno ordinò due calici: era il giorno del mio tredicesimo compleanno. Pagò da bere a tutta la gente che c’era e facemmo un gran brindisi. Poi uscimmo, passeggiammo per mezz’oretta e disse: Devo fare pipì, dove potremmo trovare un bagno?
Laggiù! urlai.
Hai fiuto, disse.
Quella fu la prima osteria che scelsi io.
Zio Mario diceva che tra scegliere l’osteria giusta e scegliere la strada giusta nella vita non c’è differenza. Bisogna valutare la posizione, l’insegna, l’ingresso, il menù, analizzare chi entra ed esce e soprattutto, diceva, percepire l’aura.
Cos’è l’aura, zio?
Ѐ la verità che sprigiona un posto. Ci sono osterie che sprigionano verità potenti, sei a cento metri e già ti senti chiamare. Altre ti chiamano quando sei a venti metri, altre ci devi proprio stare a due passi per sentire qualcosa. Ma tutte le osterie custodiscono una verità. I bar dipende, quelli finti li fiuti già a un chilometro.
E aggiungeva: Noi non andiamo per osterie. Noi siamo cercatori di verità!
Zio Mario lavorava in porto. Era orgoglioso di essere un portuale, diceva che non aveva colleghi ma fratelli. Ne trovavamo tanti nelle osterie. Si abbracciavano come se non si vedessero da anni, anche se erano passate solo poche ore. Tutti gli volevano bene, era impossibile non volergli bene.
Zio Mario era sempre allegro. L’allegria era il suo modo di stare al mondo. Pesava cento chili ma sembrava camminasse a due metri da terra.
Vent’anni fa si ammalò di cancro all’intestino. Me lo disse così, mentre stavamo esplorando un rione alla ricerca di grandi verità:
Mi hanno trovato una cosa, dicono sia brutta. Ma vai a sapere! Magari è solo una cosa che ha sete. Le offriamo un calice?
Fece la chemioterapia e sconfisse il tumore.
Hai visto? disse. Non era una cosa brutta, era solo una cosa passeggera. Auguriamole buon viaggio!
Trovammo un’osteria con una verità potentissima e offrimmo da bere a tutta la gente che c’era.
Poi arrivò il secondo cancro: passeggiò per qualche anno nello stomaco dello zio e se ne andò. Quindi arrivò il terzo, ai polmoni, e pure quello dopo qualche anno decise di partire. Il quarto arrivò alle ossa e si trovò proprio bene. Non voleva andarsene.
Si vede che ho ossa buone, diceva. Se sta bene là lasciamolo stare!
Stava così bene che lo zio iniziò a stare malissimo. Lo ricoverarono e gli diedero un mese di vita, invece resistette sei mesi. Andavo a trovarlo in ospedale e lo trovavo circondato da amici e parenti. Anche le infermiere si fermavano ad ascoltare i suoi racconti, la chiamavano la stanza della festa.
Il giorno prima di morire non arrivava a cinquanta chili. Era sotto morfina. Entrai con un volto scurissimo.
Nipote mio! disse con un filo di voce. Come stai?
Insomma, gli dissi. Tu piuttosto come stai?
Cos’è quella faccia triste?
Come faccio a non essere triste?
Fece cenno di avvicinarmi. Mi prese la mano e mi disse:
Mi prometti che domani sorriderai?
Ci proverò, zio.
Qualche ora dopo la cosa che era entrata nelle ossa prese per mano lo zio e se lo portò in viaggio.
Alla sua sepoltura vennero centinaia di persone, ognuna con una bottiglia di vino. Brindammo e cantammo fino a tarda notte. Anche i becchini si unirono alla festa. Dissero che non avevano mai assistito a un funerale così allegro.
Ma chi era? mi chiese uno di loro.
Un cercatore.
L’AUTORE: LUIGI NACCI
Luigi Nacci, nato nel 1978 a Trieste, è poeta e scrittore. La “viandanza”, parola che ha messo al centro della sua ricerca di uomo e autore, è per lui un modo di tenere insieme la parte sedentaria e quella nomade. È insegnante, giornalista, guida ambientale escursionistica e per Ediciclo dirige la collana “La biblioteca del viandante”. Ama andare fuori sentiero.
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso